Il Festival Jazz di Juan-les-Pins non delude le aspettative del pubblico. Jean-René Palacio, Direttore artistico dal 2010, ha continuato a valorizzare questa rassegna contraddistinta sin dalle sue origini, da vari cromatismi sonori, accomunati dal variegato linguaggio del jazz. Questa 54ª edizione verrà ricordata dai posteri non solo per l’eccezionale presenza di Stevie Wonder – icona soul che ha scritto alcune delle pagine più significative del grande libro della musica – ma anche per la capacità dei suoi organizzatori di far convivere sul medesimo palco giovani artisti contemporanei e storiche figure del panorama jazz. Lo hanno dimostrato i tre concerti del 15 luglio, ognuno caratterizzati da differenti energie, stilemi e atmosfere sonore. Ha inaugurato la serata Stacey Kent, vocalist newyorkese che si è destreggiata in modo molto naturale tra standard della chanson française e della bossa nova.
Dopo dieci anni dalla sua prima esibizione sul palco di Juan, l’interprete statunitense dalla timbrica lieve, è tornata riproponendo vari brani – fra cui “One note samba” – inclusi nell’album The Changing Lights, vero e proprio omaggio alla musica brasiliana e ai suoi massimi esponenti (come Antonio Carlos Jobim, Marcos Valle e João Gilberto). Non è mancato inoltre il classico “Jardin d’hiver”, firmato Benjamin Biolay e Keren Ann, reso celebre dall’istrionico e ironico Henri Salvador. Stacey Kent, accompagnata da un quartetto in cui figura anche il marito sassofonista, Jim Tomlisnson (che ha regalato al pubblico un assolo anche’esso delicato come la voce della moglie) ha mostrato il volto leggero, soave, quasi sussurrato del jazz, senza cimentarsi in salti d’ottava o in fraseggi complessi, creando un clima mellifluo, perfetto come aperitivo musicale della serata.
A chiusura del live della Kent, Jean-René Palacio ha invitato il pubblico a sviscerare un lungo e sentito applauso in ricordo del compianto contrabbassista Charlie Haden, deceduto pochi giorni prima, esattamente l’11 luglio, proprio quando stava per essere inaugurata questa 54ª edizione di Jazz à Juan. Dopo qualche minuto l’aria che si respirava attorno e sul palco si è trasformata.
L’energia è mutata appena quattro musicisti, ciascuno virtuoso del proprio strumento, hanno iniziato a creare un interplay trascinante, divertente, a tratti improvvisato. Protagonisti di questo cambio di paesaggio sono: Manu Katché, straordinario batterista che ha suonato fra gli altri con Peter Gabriel, Joni Mitchell, Sting e Youssou N’Dour; Éric Legnini pianista italo-belga dotato di un’incredibile abilità nel giocare in modo swingheggiante coi tasti bianco-neri; Richard Bona, bassista, produttore, songwriter originario del Camerun, ma artista senza frontiere, bravo a destreggiarsi tra elettronica, jazz, fusion, e ritmi tipicamente africani; Stefano Di Battista, sassofonista tra i migliori jazzisti italiani degli ultimi vent’anni.

Insieme hanno ridestato gli astanti, alcuni impigriti da un torpore borghese, proponendo il loro innovativo e riuscitissimo progetto sospeso tra Africa ed Europa. Dagli album Third Round e Neighbourhood di Manu Katché sono stati eseguiti brani assolutamente perfetti sul piano degli arrangiamenti e della melodia, come “Keep on trippin” e “Number One”. Ad ogni esecuzione era palpabile il piacere dei quattro artisti di suonare insieme ed era altresì evidente la loro maestria nel creare un dialogo musicale equilibrato tra loro. Se Legnini ha incantato coi suoi assoli di piano, Stefano Di Battista ha confermato la grande abilità nel muoversi col suo sax nei vari territori del jazz. Richard Bona, nel corso di un suo assolo, ha elargito una performance unica rievocando canti e suoni provenienti dalla Madre Africa: un momento indelebile, che dovrebbe spingere gli organizzatori di Jazz a Juan a una riflessione su quanto spazio venga realmente dato a quei linguaggi sonori provenienti da territori “altri”, lontani da una prospettiva eurocentrica e anglofona.
Questa quinta serata del Festival è stata chiusa da due icone della musica, due artisti che non hanno bisogno di presentazioni e che rappresentano due esempi di versatilità musicale e di puro eclettismo jazz: Chick Corea, semplice, nel suo look con jeans e scarpe sportive, allergico com’è ai luccichii edonistici, e Stanley Clarke, suo vecchio compagno dello storico esperimento fusion e post-bop degli anni Settanta Return to Forever.

Sul palco di Juan il duo ha presentato stilemi di jazz d’avanguardia in forma acustica-minimale, tra il pianoforte suonato in modo impeccabile da Corea e il contrabbasso che Stanley Clarke modellava musicalmente come fosse argilla tra le sue mani. Una performance live rara a sentirsi, in cui è stato ripreso l’intramontabile classico “No Mistery” incluso nell’omonimo straordinario album datato 1975 dei Return to Forever. Struggente e intenso è stato poi il brano “Song for Sophia/ La Canción de Sophia” suonato magistralmente da Stanley Clarke, da lui stesso scritto nel 1995 per sua moglie. Questi due giganti del jazz hanno saputo coinvolgere il pubblico ricordando anche i loro esordi e le loro storiche collaborazioni con Miles Davis, Stan Getz e Gil Evans: tuffi in un passato che per molti rappresenta quell’età dell’oro del jazz che mai più si potrà ripetere, ma che in realtà si ripresenta ogni volta che suonano insieme artisti del calibro di Chick Corea e Stanly Clarke. Solo musicisti come loro possono pensare di intonare le note di “No Mistery” al pianoforte e poi farle cantare a un pubblico entusiasta. È così che si è conclusa la serata del 15 luglio a Juan, in una risata generale al ritmo di buon jazz.
Silvia C. Turrin